Il giovane Paolo Emilio Taviani all’Università Cattolica di Milano

di Alessandro Pavarin Introduzione Paolo Emilio Taviani arrivò all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano alla fine del 1935. Tra il 1936 ed il 1939 fu Assistente volontario presso la cattedra di Economia politica nell’Istituto di Scienze economiche diretto da Francesco Vito [i]. La sua ambizione era quella di diventare un economista. Nel novembre del 1934 aveva conseguito una prima laurea in giurisprudenza presso l’Università degli studi di Genova [ii] dove aveva svolto una tesi di Economia politica dal titolo Saggio di una dottrina dell’utilità economica sotto la guida di Emanuele Sella [iii]. Era poi entrato nel Collegio Mussolini di Scienze Corporative della Regia Scuola Normale Superiore di Pisa dove aveva ottenuto una seconda laurea in Scienze sociali e corporative [iv]. Da giovane studente aveva coltivato interessi in campi disparati. Presso l’Ateneo genovese aveva sostenuto esami di letteratura italiana e spagnola, di geografia, di storia dell’arte e filosofia [v].Già autore di apprezzati di saggi storici [vi], esercitava anche una significativa attività giornalistica scrivendo per alcuni quotidiani cattolici del capoluogo ligure[vii]. Cominciò a sviluppare un particolare interesse verso temi di carattere economico e sociologico a partire dal 1932. Quale aspirante economista, l’ambizione di Taviani era quella di formulare una teoria economica corporativa sull’origine dei bisogni e dei fini dell’azione economica. Essi non avrebbero dovuto essere considerati come dati – come nella teoria neoclassica –, ma indagati nei processi dinamici della loro formazione e della loro modificazione nel corso del tempo nonché in relazione alla complessità delle loro interrelazioni (complementarità) e della loro natura psicologica e morale. In altri termini, Taviani avrebbe voluto formulare una teoria con preferenze endogene in grado di coniugare morale ed economia. L’agognata carriera accademica per diventare economista fu però interrotta nel 1938, quando fu bocciato al concorso per professore straordinario alla cattedra di Economia politica corporativa della Regia Università di Sassari[viii]. Continuò gli studi laureandosi in filosofia in Cattolica nel 1939 [ix] e riuscì anche ad ottenere l’assistentato di economia nel 1940 presso l’Università di Genova[x]. Riorientò la sua ambizione accademica verso la storia del pensiero economico e nel 1943 riuscì a raggiungere il suo obiettivo: conseguì la libera docenza in Storia delle dottrine economiche e fu anche nominato professore incaricato di Demografia [xi]. [i] Cfr. Archivio storico dell’Università Cattolica (d’ora in poi ASUC), Direzione risorse umane, Serie fascicoli personale docente, posizione n. 2846, prof. Taviani, lettera di Agostino Gemelli a Paolo Emilio Taviani (agosto 1938). [ii] Cfr. ASUC, Cartella studente Taviani. [iii] Cfr. M. Vaudano (a cura di), La figura e l’opera di Emanuele Sella, Sella di Monteluce Foundation – Docbi-Centro Studi Biellesi, Biella, 1999. [iv] Cfr. ASUC, Direzione risorse umane, Serie fascicoli personale docente, posizione n. 2846, prof. Taviani, lettera di Paolo Emilio Taviani ad Agostino Gemelli (28/1/1936); A. Mariuzzo, Scuole di responsabilità. I “Collegi nazionali” della Normale gentiliana (1932-1944), Edizioni della Normale, Pisa, 2010, pp. 104 e 142-143; D. Veneruso, Paolo Emilio Taviani dall’Azione Cattolica alla Democrazia cristiana, in F. Malgeri (a cura di), Paolo Emilio Taviani nella cultura politica e nella storia d’Italia, Le Mani – Istituto Luigi Sturzo, Recco, 2012, pp. 30-31. [v] Cfr. ASUC, Fascicolo di Taviani Paolo Emilio, Elenco dei titoli. Ottenne anche il diploma in Paleografia e dottrina archivistica. [vi] Cfr. P. E. Taviani, L’opera di Bolivar, Studium, Roma, 1932. [vii] Taviani scriveva sui fogli genovesi «Il Nuovo Cittadino» e «La Voce Giovanile». [viii] Cfr. Ministero dell’Educazione nazionale, «Bollettino ufficiale. Parte II. Atti di amministrazione», a. 66, vol. I, 23 marzo 1939, n. 12, pp. 597-605. [ix] Si laureò con la tesi dal titolo Dottrine economiche eterodosse nel Risorgimento italiano e loro fondamenti filosofico-sociali. Condusse le proprie ricerche sotto la supervisione di Francesco Olgiati e i suoi relatori furono lo stesso Olgiati, Fanfani e Umberto Padovani. Cfr. ASUC, Cartella studente Taviani, verbale dell’esame di laurea in filosofia. [x] Cfr. P. E. Taviani, Cournot e il positivismo, in «Rivista Internazionale di Scienze Sociali», a. XLVIII, s. III, vol. XI, gennaio 1940, n. 1, pp. 23-35. Insegnò anche storia e filosofia prima a La Spezia, poi a Pisa e infine a Genova: cfr. C. Brizzolari, Un archivio della Resistenza in Liguria, Di Stefano, Genova, 1974, p. 375. [xi] Cfr. ASUC, Fondo corrispondenza, b. 147, f. 260, c. 1961, lettera di Paolo Emilio Taviani ad Agostino Gemelli (Marina di Pisa, 16/3/1943); certificato rilasciato dall’Università degli Studi di Genova datato 13 gennaio 1964 (Genova).. Piazza Il percorso di formazione del giovane studente genovese fu segnato da suggestioni culturali di natura contrastante. Appartenne alla Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci [i]), di cui divenne presidente della sezione genovese nel 1933 [ii]. Allo stesso tempo, come tanti altri studenti cattolici dell’epoca, fu membro dei Gruppi universitari fascisti (Guf). La frequentazione dei Guf costituiva un’occasione per estendere la propria rete di contatti e talvolta anche un’opportunità per riuscire ad accelerare gli studi [iii]. Nella Fuci Taviani ebbe relazioni significative con il “gruppo del seminario” ed in particolare con don Emilio Guano e don Franco Costa[iv], ovvero con una corrente giovanile critica nei confronti del regime[v]. Fu peraltro vicino al “dissidente” Sella, membro dell’antifascista “gruppo del caffè Vecchi” e assiduo ospite del salotto dell’ex Popolare Achille Pellizzari [vi]. A Pisa ebbe d’altronde l’occasione di confrontarsi con il filosofo Ugo Spirito, allievo di Giovanni Gentile, e con la sua radicale critica al liberalismo e al capitalismo[vii]. Sia pure in disaccordo con l’Attualismo del suo maestro, Taviani nutrì una certa stima per il suo allievo[viii]. Ne condivise almeno in parte i giudizi sulla Crisi del ’29: essa non fu “soltanto economica [ix]”, ma anche un “crollo […] morale della civiltà”[x], la disgregazione di ciò che rimaneva del mondo liberale[xi]. Aveva inoltre buoni rapporti con il rettore dell’Ateneo milanese, Agostino Gemelli [xii], e una relazione privilegiata con Francesco Olgiati, braccio destro del rettore nella formazione religiosa degli studenti[xiii] e già allievo di Dalmazio Minoretti, arcivescovo di Genova [xiv]. Quest’ultimo aveva peraltro ottenuto la cattedra di Economia sociale nel Seminario della quale Giuseppe Toniolo era stato il precedente titolare[xv]. Il rettore era impegnato a tutelare e incrementare l’attrattività dell’Università Cattolica nei confronti delle più promettenti giovani leve del mondo cattolico come ad esempio Taviani. L’adesione di uno studente cattolico a correnti in competizione con l’Ateneo, come il “gruppo del seminario”, avrebbe potuto significare avere “un nuovo nemico nella Fuci”[xvi]. Taviani voleva diventare l’assistente di Amintore Fanfani, giovane docente di Storia economica presso l’Ateno milanese [xvii]. Il professore toscano aveva gradito la benevola recensione che il genovese aveva dedicato alla sua fortunata monografia Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo [xviii]. Fanfani aveva però già un altro assistente, Gino Barbieri[xix]. Fu così che Taviani finì per diventare l’assistente di Vito.[xx] Un’idea nuova, allo stesso tempo, politica e religiosa Per i primi due anni, almeno in apparenza, il rapporto tra Taviani e Vito non sembrò presentare particolari problemi. In realtà, in questo periodo, insorsero degli importanti contrasti di cui Gemelli venne a conoscenza solo nel corso del 1937. Le ragioni dello screzio tra Taviani e Vito sono importanti perché vanno ricondotte al conflitto metodologico cui il corporativismo dette luogo nel mondo universitario cattolico negli anni ’30. Sia pure consapevole dei suoi limiti e critico in particolare nei confronti del carattere statico della teoria neoclassica xxxiii, Vito ne condivideva gli assunti fondamentalixxxiv. Alcuni furono invece attratti dall’idea del cosiddetto corporativismo “integrale”: aspiravano a formulare una “nuova” scienza economica fondata sull’azione di un ipotetico homo corporativusxxxv. Era alla luce di questa possibile prospettiva che Fanfani auspicava di “sistemare cattolicamente […] l’economiaxxxvi. Tra i maggiori fautori di questo indirizzo c’era Gino Arias, fiorentino di famiglia ebraica ma convertito al cristianesimoxxxvii, cui Taviani si sentiva legato da “vincoli di comunanza di ideexxxviii. Sia pure rimanendo sullo sfondo di questa vicenda e digiuno di studi economici, Gemelli giocava in questo confronto un fondamentale ruolo di riferimento. Il rettore aveva il compito istituzionale di preservare un equilibrio potenzialmente instabile fondato sull’esigenza di conciliare la credibilità scientifica dell’Ateneo con la sua identità cattolica, allora ricondotta ai principi del contributo filosofico Neo-Tomistico. Gemelli forniva un insostituibile avallo alle direzioni di ricerca seguite da Vito e Fanfani, data la consapevolezza dei possibili pericoli che il percorrere indirizzi di indagine dagli esiti incerti, come appariva al tempo lo studio del corporativismo in economia, avrebbe potuto comportare. Fanfani vedeva nel corporativismo fondato sul Neo-Tomismo una promettente “idea nuova”, sia “politica” sia “religiosaxxxix. Taviani era altrettanto attratto da questa “idea nuova” e definì Arias, Sella e Fanfani i suoi “maestri nella disciplina specifica”xl del corporativismo. Proprio tale “idea nuova” fu però anche l’oggetto di un’accesa polemica tra Vito e Arias, nella quale Taviani si schierò con quest’ultimo. Lo stesso Fanfani subì il fascino dell’economista fiorentino quando questi presentò un contributo di orientamento Neo-Tomistico al Convegno di studi corporativi di Ferrara del 1932. Lo storico segnalò quindi l’intervento ferrarese di Arias a Jacopo Mazzei, suo maestro. Si decise quindi di proporre ad Arias di esporre una serie di lezioni su questo tema a Milanoxli. Le aspettative nutrite nei confronti dell’economista fiorentino vennero però presto deluse. Il suo eterodosso approccio teorico non apparve persuasivo. Il corporativismo declamato da Arias si rivelò soverchiamente retorico quanto teoricamente inconsistente e comunque incompatibile con gli assunti fondamentali della prevalente teoria neoclassica. Peraltro l’ingresso di Arias nell’Ateneo milanese fu alquanto incauto ed infelice. Nel corso delle lezioni milanesi, il fiorentino formulò sgradevoli critiche contro Vito, già bersaglio di altri fastidiosi attacchi in precedenti occasionixlii. Il rettore chiese quindi a Fanfani spiegazioni sull’incresciosa vicendaxliii, segnalatagli a sua volta da Vitoxliv. Lo storico aretino era rimasto indubbiamente spiazzato dal comportamento di Ariasxlv e non perse l’occasione per fornire a Gemelli validi motivi per chiudere le porte dell’Università Cattolica all’economista fiorentino. Fanfani fece riferimento sia alle probabili e sgradite ambizioni accademiche di Arias sia alla modalità enfatica e sconveniente con cui quest’ultimo aveva promosso quell’indirizzo di ricerca sul corporativismo verso il quale lo stesso Fanfani aveva mostrato interessexlvi. Secondo le voci raccolte da Fanfani, Arias cercava di “essere chiamatoxlvii in Cattolica. Ma l’eventuale presenza di Arias sarebbe diventata un’inevitabile causa di contrasti poiché il fiorentino cercava di farsi maestroxlviii, mentre sia Vito sia lo stesso Fanfani avevano ormai “la testa capace di lavorare da séxlix. Arias esasperò inoltre intenzionalmente lo scontro sulla questione metodologica con Vito, mettendosi peraltro in cattiva luce presso la gran parte degli economisti dell’Ateneo. L’adesione di Vito al corporativismol non implicava una condivisione del concetto di scienze economica di Arias. Secondo Vito, l’economista in quanto scienziato non doveva rappresentare “esattamente la realtàli. Citando Maffeo Pantaleoni, Vito affermava di concepire la scienza economica come un “processo di astrazione”lii in cui bisogni e fini sono dati. Allo stesso tempo, prendeva però le distanze dal positivismo materialista dell’economista marchigiano sostenendo che la scienza fosse subordinata all’etica. La scienza era infatti essenziale affinché l’economista potesse pianificare interventi e strumenti di politica economica per realizzare fini che avevano una valenza politica e morale. “L’arte economica”, ovvero la politica economica, – spiegava Vito – “non può che essere che l’applicazione dei risultati della scienza”liii. Ciò non toglie d’altronde che anche in politica economica l’economista avrebbe dovuto considerare i fini (etici) come dati: essi dovevano essere “dati dalla valutazione filosofica”liv, dovevano cioè essere espressi dal filosofo al cui servizio l’economista operava per definire l’utilizzo razionale delle scarse risorse a disposizione dell’uomo e “suscettibili di impiego alternativo”lv. La razionalità dell’economista aveva perciò una valenza essenzialmente strumentale sia che stesse astrattamente teorizzando l’azione dell’homo oeconomicus sia che stesse programmando un intervento di politica economica in vista della realizzazione di uno scopo collettivo. Secondo Arias, nella prospettiva di Vito non c’era però un sostanziale nesso tra economia ed eticalvi. Vito limitava eccessivamente il ruolo dell’economista. Arias non reputava che l’economista non dovesse partecipare alla definizione dei fini etici della politica economicalvii. L’economista di Arias – così come quello di Taviani – doveva valutare “anzi attentamente i fini”, era chiamato a stabilire ed esaminare i “presupposti etici e politici” della politica economica” e a studiarne “l’applicazione in tutto il suo vasto territorio”lviii. In altri termini, l’economista non doveva avere quel ruolo subalterno al filosofo che Vito sembrava attribuirgli. Arias esasperava il fatto che, definendo l’uso dei mezzi, l’economista non potesse fare a meno di condizionare o influire sui fini. Le scelte dell’economista non erano e non potevano mai essere politicamente e perciò eticamente “neutre”lix. Questo approccio destava l’attenzione di Fanfanilx. Lo stesso storico si era infatti interessato allo studio di un processo di nascita e definizione dei bisogni e dei fini che potesse avere una rilevanza non solo filosofica ma anche scientificalxi. A questo proposito Fanfani aveva redatto un saggio sulla ricerca di una rinnovata teoria del valore e dell’utilità di ispirazione mengerianalxii che influenzò l’attività di studio Taviani e risultò gradita ad Arias. Il giovane Taviani spese ingenti energie nello studio di una teoria della scelta economica che risalisse alla natura etica dei bisogni e fini del soggetto economico rifacendosi al contributo della scuola viennese di Hans Mayerlxiii. Tuttavia l’enfasi polemica del tono del discorso di Arias sul rapporto tra economia e filosofia – sia pure Neo-Tomistica – aveva destato grande perplessità a Milano: Fanfani raccontò che non si vide “di buon occhio la venuta di Arias dagli economisti, dagli statistici dai giuristi (tutti e tre puri)lxiv in Cattolica. L’inopportuna veemenza con cui Arias propose le sue tesi diventò l’occasione per muovergli contro “l’accusa di funambolismolxv. Ancor meno convincente fu l’idea che l’homo corporativus declamato da Arias potesse davvero sostituire l’homo oeconomicus della teoria neoclassica. Peraltro, aggiungeva lo stesso Fanfani, “ancora non [era] dimostrato” che gli economisti ortodossi avessero “scritto solo sciocchezze”lxvi. Era perciò inopportuno “legare l’Università e le sue opere a programmi che non ancora erano stati adeguatamente “maturatilxvii. Nonostante quindi le suggestioni suscitate dall’aspirazione a rinnovare le categorie economiche alla luce del connubio tra scienza ed etica accentuato da Arias, il giudizio complessivo dell’Ateneo nei confronti di queste forme di corporativismo “integrale” rimaneva caratterizzato da grande prudenza se non addirittura da un’ostilità più o meno latente. Bisogna aiutarlo, legarlo all’Ateneo milanese Nel complesso e delicato contesto qui delineato, nell’agosto del 1937, la questione del controverso rapporto tra Taviani e l’Università Cattolica venne alla luce. Vito definì “equivoca”lxviii la posizione assunta da Taviani verso l’Ateneo. Gli rimproverò sia una discutibile condotta nell’assunzione delle proprie responsabilità in qualità di Assistente dell’Istituto di Scienze economiche sia l’inadeguatezza dell’eterodosso metodo di studio assunto.  Vito sosteneva che Taviani non avesse “mai ritenuto di dover collaborare”lxix con l’Istituto presso cui era stato nominato Assistente. Nonostante le sue pur innegabili assenze, dovute a motivi di salute e all’esigenza di assolvere l’obbligo militarelxx, il genovese si difese facendo fece notare di avere in realtà sempre ottemperato ai suoi obblighi. Le recensioni delle opere che gli venivano richieste e che erano state regolarmente pubblicate sulla «Rivista Internazionale di Scienze Sociali» dimostravano la serietà del suo impegnolxxi. La controversia più aspra aveva peraltro come oggetto il metodo scientifico e, sia pure con diverse modalità e proporzioni, ricalcava un copione molto simile a quello che aveva come protagonisti Arias e lo stesso Vito. L’esplicitazione del conflitto era stata preceduta da precisi antefatti. Nel corso dell’anno accademico 1935-’36, Vito aveva presentato una relazione sul tema “Economia ed Etica” nel gruppo di studio della Fuci “diretto da Fanfani”lxxii. A seguito dell’intervento di Vito, Taviani aveva preso la parola per mettere “in guardia i fucini contro gli errori”lxxiii scientifici di Vito. Taviani criticava Vito nello stesso periodo in cui Arias stigmatizzava lo scritto dall’omonimo titolo dell’economista campano (Etica ed economia) pubblicato sulla «Rivista Internazionale di Scienze Sociali»lxxiv. E, non a caso, Arias apprezzava l’approccio analitico di Tavianilxxv. Pienamente convinto delle proprie tesi, nel luglio del 1937 Taviani scrisse a Gemelli che l’idea (vitiana) di intendere l’economia unicamente come “scienza strumentale”lxxvi fosse erronea. Così come per Arias, anche per lo studioso genovese il connubio tra visione tomistica del mondo e scienza economica si sarebbe dovuto tradurre in un analogo ed inscindibile legame tra razionalità economica ed etica. In questa prospettiva, sia l’economista sia il soggetto economico erano chiamati a discriminare non solo tra limitati mezzi alternativi ma anche tra fini che avevano natura eticalxxvii. La goccia che fece traboccare il vaso dei cattivi rapporti tra Taviani e Vito fu la vicenda della pubblicazione della tesi di laurea in economia del giovane Assistente. In gennaio Taviani aveva consegnato a Vito una versione della sua tesi che gli venne restituita con l’invito a rivederla secondo precise indicazionilxxviii. Dopo una prima revisione del lavoro, Taviani inviò lo scritto a Gemellilxxix provocando la stizzita reazione di Vito. L’economista campano sostenne infatti che Taviani fosse “poco convinto”lxxx delle osservazioni ricevute e non gli avesse voluto reinviare il manoscritto rivisto per scavalcarlo e sperare di trovare un definitivo e positivo avallo da parte di Gemelli. Al di là di quali siano state le reali intenzioni di Taviani, accadde che la commissione dell’Ateneo che fu poi incaricata di giudicare se lo scritto del genovese fosse pronto o meno per la pubblicazione diede un parere negativolxxxi. Taviani espresse a Gemelli il suo disappunto. A suo modo di vedere, la disapprovazione della commissione non era dovuta alla ancora insufficiente elaborazione del suo saggio. Era piuttosto l’esito del rigetto delle sue idee, secondo lui “condivise dal prof. Fanfani”lxxxii, ovvero di quelle stesse idee sul rapporto tra economia ed etica che Arias aveva esaltato ma che in Cattolica non avevano (ancora) trovato adeguata accoglienza. A questo punto Vito avrebbe voluto impedire il rinnovo della nomina ad Assistente di Taviani in Cattolica per l’anno 1937-’38lxxxiii. Fanfani prese però le parti di Taviani. Per il rettore la posta in gioco non era d’altronde solo quella, sia pure fondamentale, di tutelare la reputazione scientifica dell’Ateneo, ma anche di vincere la competizione con le altre componenti del mondo giovanile cattolico che avrebbero potuto portare Taviani dalla loro parte. Al di là dei controversi rapporti avuti con Vito, Taviani rimaneva un giovane studioso brillante che era opportuno avere con sé. Sia pure osservando che “giustamente”lxxxiv padre Gemelli si preoccupava che Taviani non si unisse a correnti fucine concorrenti, Vito metteva però in dubbio la lealtà di Taviani nei confronti dell’Ateneolxxxv. Secondo il direttore dell’Istituto di scienze economiche, il genovese si fregiava della “protezione”lxxxvi dell’ostile Arias e di un nemico del calibro di Spiritolxxxvii, fautore di quell’idealismo gentiliano che rappresentava il principale antagonista filosofico del Neo-Tomismo. Fanfani intervenne quindi innanzitutto cercando di stemperare le tensioni suscitate dall’avventata condotta di Taviani nella Fuci. Non lesinò giustificazioni a favore del giovane autore “ancora un po’ ragazzo negli entusiasmi e nei giudizi ed opinioni”lxxxviii e, a suo dire, molto “influenzato” da “Don [Franco] Costa”lxxxix, leader di un’attiva corrente fucina non allineata con l’Ateneo milanesexc. Fanfani non aveva dubbi: Taviani era un valido studios oxci: “bisogna[va] aiutarlo, legarloxcii” alla Cattolica. Giunse così la conferma per l’assistentato alla cattedra di Economia anche per l’anno accademico 1938-’39 xciii. Come già ricordato, la carriera di economista accademico di Taviani non ebbe tuttavia esito positivo. Persuaso da Fanfani, Arias, e Sella a presentarsi ad un concorso per una cattedra di economia a Sassarixciv, Taviani venne respintoxcv. Sebbene si riconoscesse che il concorrente mostrasse “attitudini alla ricerca scientifica”xcvi, lo studio di Taviani sul carattere genetico-causale della scelta economica dell’austriaco Mayer riproposta in un contesto corporativo venne giudicato un “lavoro in cui non senza sottigliezza dialettica” si discutevano “problemi già chiariti da tempo e che quindi non” costituivano “un contributo veramente apprezzabile”xcvii. In effetti Taviani non si dimostrò in grado di formalizzare analiticamente una teoria in cui il soggetto economico fosse dotato di preferenze endogene, cioè mutevoli in relazione a un processo di apprendimento che, secondo l’autore, consisteva in una dialettica introspettiva di natura psicologica e morale. Si limitò a riproporre la teoria psicologico-introspettiva di Mayer sull’origine dei bisogni e sulla loro traduzione in moventi per l’azione economica connotandola in senso morale e filosofico Neo-Tomistico xcviii.  Nonostante l’appianamento dei contrasti con Vitoxcix, il rapporto formale di Taviani con la Cattolica si interruppe nel 1939, anche se stima e considerazione da parte dell’Ateneo nei suoi confronti non vennero meno. Nell’autunno del 1940 all’Università Cattolica di Milano si tennero una serie di incontri segreti in cui il fascismo fu messo esplicitamente in discussionec. In questi appuntamenti furono invitate alcune delle personalità più prestigiose dell’Ateneo: Taviani fu uno dei convocati, insieme a Vito, Fanfani, Franceschini, La Pira, Giacchi, Gedda e diversi altrici. Lo studioso ligure diventò inoltre uno dei protagonisti del Movimento laureati che nei primi anni ’40 cooperò con la Cattolica per progettare una serie di lezioni sul tema della programmazione alla luce sia delle coeve esigenze poste dall’economia di guerra sia dell’economia mista inaugurata dall’avvento dell’IRI, diventato ente permanente nel ’36cii. Insieme a Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno – professore incaricato di Revisione e controllo aziendale nel 1938 e poi straordinario in Tecnica industriale e commerciale dal 1942 presso l’Ateneo milanese – ebbe un ruolo chiave nell’organizzazione dei rapporti tra la Fuci, l’Istituto cattolico per le attività sociali (ICAS) e l’Università Cattolicaciii. In questo contesto si sviluppò un fecondo rapporto tra Taviani e il giovane aziendalista della Cattolicaciv. Nel 1943 Taviani fece sapere a Saraceno dell’“entusiastica fiducia” che quest’ultimo stava acquisendo “specie nell’ambiente giovanile”cv. Lo stesso Taviani affermò che le tesi di Saraceno sull’economia mista contenevano i “motivi tecnici” di tante sue “convinzioni, maturate piuttosto attraverso a considerazioni morali o sociologiche, se non attraverso a impressioni”cvi. Nel corso delle giornate di studio del Movimento si svilupparono elaborazioni economico-giuridiche e sociologiche che trovarono poi spazio nel cosiddetto Codice di Camaldoli
Conclusione
Il rapporto di Taviani con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano fu condizionato da un orientamento di studi non fecondo. Si trattava di un corporativismo utopico, l’aspirazione a una sorta di tomistica societas perfecta che sottendeva peraltro una (complessa) teoria fondata su preferenze endogene che Taviani non era in grado di sviluppare analiticamente. Sia pure date le differenze riguardanti i rispettivi e contrastanti orientamenti politici, sia Sella prima che Arias e più prudentemente Fanfani poi, lo avevano spinto in questa stessa direzione. Ciò non toglie che Taviani non abbia rinunciato alla carriera accademica e abbia tratto frutto dagli studi sulla teoria economica compiuti in gioventù. Non solo diventò un professore universitario della storia di quelle dottrine, ma anche un uomo politico in grado di valutare con un sofisticato spirito critico le scelte di politica economica che il suo partito, la Democrazia cristiana, adottò nel corso della storia economica repubblicana. Lui stesso ne fu un brillante interprete in qualità di responsabile di diversi dicasteri economici tra gli anni ’50 e ’70